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sabato 26 giugno 2021

Consolare gli afflitti...

Una celebre vicenda biblica, antica eppure sempre attuale, è quella riguardante Giobbe, l'uomo giusto che fondamentalmente non distoglie mai il suo sguardo da Dio nonostante si trovi a sperimentare una sofferenza che, in ragione della sua retta condotta di vita, egli sente immeritata.
Dalle pagine del libro di Giobbe emerge l'antico problema teologico della “teodicea”, cioè della “giustificazione” di Dio di fronte all'ingiusta presenza del dolore nel mondo... e, all'interno di questa spinosa questione religiosa io oggi pensavo, in particolare, allo spunto di riflessione suggerito dai capitoli nei quali gli amici teologi di Giobbe cercano di consolarlo con gli argomenti tradizionali incentrati sull'antica dottrina della “retribuzione”, che attribuisce necessariamente alla sofferenza una radice di colpa morale... e che dunque fa di quest'ultima la causa - a detta loro - dell'esperienza di dolore che lui si trova ad affrontare  (cf. Gb 4,1ss).

Ora… poiché Giobbe pensa in cuor suo di non aver fatto nulla per “meritarsi” quella sofferenza, in realtà lui si sente profondamente incompreso dai suoi amici e, indispettito dai loro sterili argomenti teologici, li apostrofa duramente imputando loro di “imbrattare di menzogne”… e di essere dei “medici da nulla” (Gb 13,4)… capaci solo di pronunciare dei moniti che sono “sentenze di cenere”… e di dare  risposte che sono “baluardi di argilla” (Gb 13,12).Di fatto, questa vicenda biblica ci parla dunque di una esperienza che ciascuno di noi può sperimentare non soltanto trovandosi nei “panni” di Giobbe (con il quale molti si immedesimano)… ma anche in quelli degli amici che, senza riuscirci, cercano invano di trovare le parole giuste per consolare una persona che sta soffrendo.
Ciò può accadere a chiunque... perché l’esperienza del dolore ha sempre in sé una particolare forza rivelatrice che costringe ad un nudo faccia a faccia con la dura realtà e dunque, per contrasto, essa pone in risalto tutto ciò che non è altrettanto vero… come può per esempio essere il caso delle parole di conforto dette “per pro-forma”, cioè mediante frasi di circostanza, che non riescono ad “entrare” realmente nella condizione di chi sta soffrendo.
Nei confronti di una persona che sta affrontando l'esperienza del dolore, l’unico linguaggio autenticamente consolatorio è infatti quello che scaturisce dalla compassione, cioè da quel moto dell’animo che fa sentire un sincero dispiacere per la sofferenza altrui e che quindi fa esprimere una partecipazione autentica alla sua condizione.
E’ quello il momento in cui la persona sofferente può sentirsi consolata, perché concretamente compresa e amata… diversamente dal caso di Giobbe, il quale non si sente capito da quegli amici che, con le loro astratte e “distanti” parole, dimostrano di non riuscire a “patire insieme a lui” (com'è nell'etimo del termine “compassione”, dal latino compassio -onis, der. di compăti “compatire”).
In questa prospettiva... “consolare gli afflitti” si rivela essere innanzitutto una prova spirituale, oltre che una preziosissima opera di misericordia.

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