
Qui a fianco potete vedere la stupenda copertina del volume realizzata da ramia Riccardo, la cui geniale creatività ha espresso negli anni numerose perle grafiche a beneficio del Villaggio della Gioia (potete ammirarle cliccando: Cosa abbiamo realizzato per il Villaggio della Gioia).
Leggendo la notizia della pubblicazione della seconda edizione del nostro libro alcune persone mi hanno chiesto notizie sul suo contenuto.
Ho pensato di trascrivere in questo mio diario alcune pagine che raccontano la missione di noi Ramia al Villaggio della Gioia.
Quest'oasi di amore sorge alcuni chilometri a nord di Dar Es Salaam, in Tanzania, e ad oggi è la casa di 104 bambini che chiamano padre Fulgenzio "baba" ("Papà" in lingua Swahili).
Ebbene... questi bambini meravigliosi e fortunati sono figli anche della grande famiglia di Anima Universale, che negli anni ha sostenuto enormemente un Villaggio che oggi costituisce un fiore all'occhiello per l'intera Africa. Se vorrete seguirmi in un viaggio lungo alcune puntate, ne saprete un po' di più.
Buona lettura.
Buona lettura.
Mancano pochi giorni all’inaugurazione del Villaggio, prevista per domenica 11 gennaio, e a Dar cominciano a giungere quanti vogliono essere presenti ad un evento che si preannuncia veramente straordinario.
Padre Fulgenzio accoglie tutti a braccia aperte, godendosi in particolare il calore fraterno con cui lo avvolgono don Aurelio e don Leone, i suoi «due Don», come lui li chiama affettuosamente, che arrivano in Tanzania accompagnati da un vivace gruppetto di parrocchiani.
Padre Fulgenzio ha invitato anche noi di Anima Universale a presenziare all’inaugurazione. Siamo in tre, monaci ramia, a partire verso il Villaggio della Gioia in rappresentanza di tutti coloro che formano la grande famiglia di Anima Universale: tanti cuori che dall’Italia e dall’estero sostengono l’opera di padre Fulgenzio.
Il 3 Gennaio alle sette del mattino ci imbarchiamo all’aeroporto di Torino-Caselle sul volo diretto ad Amsterdam. Qui, dopo una breve sosta, decolliamo in direzione Dar, per una tratta di oltre dieci ore e mezza passate pregustando l’imminente «prima volta in Africa» che tutti e tre ci apprestiamo a vivere. Non vediamo l’ora di abbracciare baba Fulgenzio e di farci guidare da lui a visitare la sua «creatura».
Atterriamo a Dar alle undici di sera e, non appena ritirati i bagagli, ci affacciamo sulla città. Subito veniamo colti da una ventata di aria africana che ancora riscalda la serata, facendoci presagire la calura dell’indomani. Un taxista ci conduce sino a Mikoceni, la casa dei passionisti posizionata a nord della metropoli, e quando giungiamo al cancello è padre Fulgenzio, ancora in piedi dopo la mezzanotte, a venirci incontro per un caloroso benvenuto.
Padre Fulgenzio se ne accorge e ci accompagna ai nostri alloggi, nell’ala laterale della piccola ma capiente struttura.
Nella prima nostra notte africana il sonno tarda ad arrivare, respinto dalle emozioni che insistentemente rimbalzano in una miriade di pensieri.

Abbiamo giusto il tempo di fraternizzare con i gruppi di volontari che ci hanno preceduti di qualche giorno e poi via, tutti verso il Villaggio.

Per raggiungere la «Città della gioia», come la chiama il Cardinale Pengo, bisogna portarsi venticinque chilometri a nord di Dar, accanto al poverissimo villaggio di pescatori di Mbweni, e così non perdiamo tempo nel salire in jeep con padre Fulgenzio.
Lasciando Mikoceni alle nostre spalle imbocchiamo la New Bagamoyo Road, nuovissima strada asfaltata che collega Dar con lo storico centro di raccolta e smistamento schiavi di Bagamoyo, e a fatica tratteniamo l’impazienza di giungere al Villaggio.
Dal finestrino della Jeep di padre Fulgenzio, abile guidatore, osserviamo il brulicare di vita che anima i bordi della strada.
Viaggiamo tra due ali di gente che cammina sul ciglio asfaltato, sosta di fronte ad improvvisate bancarelle, esce da fatiscenti abitazioni.
D’un tratto, su un piccolo spiazzo tra due capanne intravediamo un adulto chinarsi verso un bambino, che con una mano gli tocca il capo.
Padre Fulgenzio ci spiega il significato di quel gesto:
In Tanzania c’è un rito praticato dai bambini, che quando incontrano un adulto gli pongono la mano sul capo ripetendo più volte Shikamoo che significa: «Sono ai tuoi piedi».
Il grande risponde allora Marahaba, ovvero «Ne sono felicissimo», e per lasciarsi sfiorare la testa si abbassa al livello del piccolo, ridimensionandosi.
Padre Fulgenzio ci spiega il significato di quel gesto:
In Tanzania c’è un rito praticato dai bambini, che quando incontrano un adulto gli pongono la mano sul capo ripetendo più volte Shikamoo che significa: «Sono ai tuoi piedi».
Il grande risponde allora Marahaba, ovvero «Ne sono felicissimo», e per lasciarsi sfiorare la testa si abbassa al livello del piccolo, ridimensionandosi.


Una ventina di minuti dopo essere partiti da Mikoceni, lasciamo la New Bagamoyo Road e ci immettiamo in una strada polverosa e piena di buche, che come un lunghissimo serpente aggira maestosi Baobab addentrandosi in un’area aperta; padre Fulgenzio ci spiega che stiamo attraversando la zona che costituirà la futura meta abitativa di centinaia di migliaia di persone. Qui è infatti programmata l’espansione urbana di Dar.
D’un tratto giungiamo in prossimità del Villaggio. Scorgiamo davanti a noi un cancello giallo che permette l’accesso al complesso di Santa Maria Nascente, costituito da un ospedale e una scuola materna; poi, finalmente, vediamo un cancello blu fiancheggiato da un muretto sul quale campeggia una scritta multicolore di benvenuto, in tre lingue, disegnata tra alcune nuvolette: «Villaggio della Gioia – Kijiji cha Furaha – Village of Joy». Siamo arrivati.


L’impatto con quel concentrato di allegria e compostezza è di quelli che toglie il fiato.
Intorno a noi osserviamo volti di uomini e donne colmi di gratitudine, letizia e devozione. Un’atmosfera unica ci avvolge, facendoci sentire veramente nella casa della gioia; ancora di più capiamo come questa parola non poteva certo mancare nel nome che padre Fulgenzio ha scelto per il Villaggio.
La semplice limpidezza d’animo che traspare dai presenti ci sembra proprio l’inno di lode più bello che si possa levare al Cielo, e poi il coro: i canti sono momenti di grande partecipazione, di coinvolgimento, di preghiera che si esprime in melodie tambureggianti, in note che incidono il cuore.
La semplice limpidezza d’animo che traspare dai presenti ci sembra proprio l’inno di lode più bello che si possa levare al Cielo, e poi il coro: i canti sono momenti di grande partecipazione, di coinvolgimento, di preghiera che si esprime in melodie tambureggianti, in note che incidono il cuore.
Dopo la messa, la giornata è un susseguirsi di immagini, esperienze, chiacchierate; don Aurelio e don Leone ci fanno da anfitrioni e assieme a padre Fulgenzio ci guidano ad una prima sommaria perlustrazione del Villaggio, conducendoci a visitare l’ostello, le case-famiglia ed i magazzini.
Intanto il nostro gruppo, comprendente anche la folta schiera di parrocchiani di alcuni paesi della bergamasca, è preso di mira dal piccolo Baraka, bimbo vivacissimo sempre disposto al sorriso; è proprio irresistibile quel suo viso simpatico, nel quale risaltano due occhioni che paiono due perle. Per lui ogni attimo è buono per inscenare siparietti esilaranti che trascinano all’allegria tutti i presenti.
Intanto il nostro gruppo, comprendente anche la folta schiera di parrocchiani di alcuni paesi della bergamasca, è preso di mira dal piccolo Baraka, bimbo vivacissimo sempre disposto al sorriso; è proprio irresistibile quel suo viso simpatico, nel quale risaltano due occhioni che paiono due perle. Per lui ogni attimo è buono per inscenare siparietti esilaranti che trascinano all’allegria tutti i presenti.

"Nella lingua Swahili non esiste il verbo avere – ci racconta padre Fulgenzio – esiste solo il verbo essere: essere per, essere con, essere insieme a, essere in compagnia di, essere amato da, servire da, condividere per, condividere con.
Per un africano il senso dell’esistenza è il condividere con il gruppo; tutto il resto viene di conseguenza".
Ma come? Ci guardiamo stupiti e ci chiediamo come un africano possa pensare, parlare e vivere, senza neanche concepire il concetto di possesso; eppure padre Fulgenzio continua spiegandoci che si tratta di una cosa naturale per chi è abituato, per poter sopravvivere, a far leva sul gruppo, sulla solidarietà.
È inevitabile che di fronte a questo modo di pensare la nostra mentalità venga colta impreparata; agli occhi della società imperniata sul capitalismo non possono che apparire come «extraterrestri» quelle persone che riescono a vivere con una semplicità imbarazzante, senza porsi il problema di possedere.
Nel pomeriggio c’è tempo anche per una veloce visita a Dar; attraversiamo quartieri gremiti di gente, sfiorando rudimentali banchi di frutta, schivando mezzi pubblici stracarichi di passeggeri, fiancheggiando pericolanti baracche e piccoli mercatini. Poi, d’improvviso, ci troviamo in una zona totalmente diversa, con tanto di banche e palazzi degni di una città europea.
Sono le contraddizioni dell’Africa.
Le parole di padre Fulgenzio ci raccontano di una terra lacerata anche dal contrasto tra tradizione e modernità.
Tornando a Mikoceni per la cena, come in un film riviviamo le sorprendenti emozioni della giornata; chissà quante altre ne verranno nei prossimi giorni!
Sono le contraddizioni dell’Africa.
Le parole di padre Fulgenzio ci raccontano di una terra lacerata anche dal contrasto tra tradizione e modernità.
Tornando a Mikoceni per la cena, come in un film riviviamo le sorprendenti emozioni della giornata; chissà quante altre ne verranno nei prossimi giorni!
Il giorno seguente padre Fulgenzio decide di accompagnarci a Veyula, sugli altipiani interni a ridosso della Rift Valley, per visitare la casa madre dei passionisti. Alle quattro della notte, anticipando la pur precoce alba africana, siamo in nove a salire in un furgoncino guidato da Andrea Pannocchia, mentre ci precede il «fuoristrada dei Don», con p.Francesco, don Leone, l’attivissima Rosaria e padre Fulgenzio.

Nei racconti avventurosi che si rispettino non può mancare il pathos della scoperta o dell’improvviso spavento che ti fa saltare il cuore in gola. Così sarà anche per noi in quel memorabile viaggio, una quindicina d’ore trascorse tra intoppi imprevisti e scenari maestosi...

È una situazione tutt’altro che simpatica, visto che ci troviamo in pieno entroterra tanzaniano, dove l’acqua non è una risorsa facilmente reperibile. Al mattino avevamo sistemato la scorta idrica nel bagagliaio del fuoristrada che ora ci precede; il problema è che i nostri compagni di viaggio sono parecchio più avanti e non abbiamo modo di avvisarli.
Il telefonino, moderna risposta tecnologica ad ogni necessità di comunicazione, qui è inservibile.
Il telefonino, moderna risposta tecnologica ad ogni necessità di comunicazione, qui è inservibile.
D’un tratto, sbuca dalla boscaglia un ragazzino che viene rapidamente verso di noi, mulinando vorticosamente l’unico pedale di una sgangherata bicicletta. L’altro suo piede è posizionato sul telaio, pronto ad appoggiarsi sulla ruota posteriore a mo’ di freno.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.
Mentre cerchiamo di ingannare l’attesa, sulla linea dell’orizzonte intravediamo qualcuno che sta venendo verso di noi. Procede con un passo talmente spedito che nel volgere di pochi attimi riusciamo prima a distinguerne a malapena la figura, poi capiamo che è un masai, e subito dopo ce lo troviamo già lì a parlare con fare risoluto insieme ad Andrea. È un uomo avanti negli anni, dalle rughe pronunciate che ne scalfiscono il volto… ma intatta è la forza che cogliamo dalla decisione di gesti e parole, peraltro a noi incomprensibili.
Usciamo finalmente dall’impasse soltanto quando la sagoma di un grosso camion si staglia in lontananza. Il conducente ci regala una piccola tanica d’acqua e così possiamo ripartire, non prima di aver sentitamente ringraziato quel ragazzino che ci saluta con un sorriso. Il viandante masai, invece, sale con noi nel furgone per alcuni chilometri, raggiungendo in anticipo il villaggio nel quale altrimenti sarebbe giunto all’imbrunire.


Andrea ci racconta come questo sia un popolo letteralmente falcidiato da malattie legate proprio all’usanza di bere di tutto, anche acqua sporca. I masai sono infatti ferrei nel rispettare i propri principi, e quindi mai scavano pozzi, né del resto praticano l’agricoltura, perché considerano necessario rispettare la terra evitando di «ferirla» con scavi o coltivazioni. Amano immensamente gli spazi aperti nei quali riescono a percorrere a piedi distanze inimmaginabili, e a queste parole ci ritorna in mente un brano letto alcuni mesi prima. Spiegava che i masai sono animati da un senso della libertà così prepotente da non poter essere tenuti a lungo in prigione, altrimenti vi morirebbero nel giro di poco tempo; per questo i reati da loro commessi sono puniti con ammende, ma non con il carcere. È un bisogno di libertà riconoscibile anche nell’anziano viandante masai che abbiamo appena salutato: ha sicuramente camminato per ore ed ore con l’unica compagnia delle sconfinate distese africane.

Ancora frastornati a causa dell’imprevisto, ci guardiamo sbigottiti di fronte a tanto inspiegabile entusiasmo, ma poi ne comprendiamo la ragione: i bambini che correndo a perdifiato sono arrivati per primi, si accaparrano i pezzi di gomma più grandi e se li sistemano ai piedi a mo’ di suole, fissandole con alcune rozze corde di fibra vegetale. È l’«arte» della sopravvivenza, affinata da giovani che sanno di dover cogliere il massimo da ogni situazione; solo così possono sperare di vincere la quotidiana lotta che qui è necessario condurre per poter continuare a vivere.
Arrivo a Veyula, la Casa Madre dell'Ordine passionista in Africa.
Dopo un rifocillante spuntino consumato al centro di uno sconfinato altopiano, pian piano ci avviciniamo alla sospirata meta.
Che meraviglia! Dalla strada, che dolcemente fende il fianco di un’altura sopraelevata sulla pianura circostante, ci alziamo tanto da poter scorgere un’inimmaginabile distesa di baobab, che si perde a vista d’occhio: piante gigantesche ci appaiono come minuscoli funghi posizionati in simmetrica armonia.
L’aria è così tersa che vediamo con nitidezza anche quelli da noi lontanissimi, fin quando si confondono con la linea dell’orizzonte; sembrano l’ordinata peluria di un grande, abnorme volto: è lo stupendo viso dell’Africa che continua a sorprenderci con le sue incantevoli bellezze.
L’aria è così tersa che vediamo con nitidezza anche quelli da noi lontanissimi, fin quando si confondono con la linea dell’orizzonte; sembrano l’ordinata peluria di un grande, abnorme volto: è lo stupendo viso dell’Africa che continua a sorprenderci con le sue incantevoli bellezze.


Camminando al suo fianco, siamo investiti dall’ondata di entusiasmo che, come una spontanea «ola», si mette in moto alla vista della bianca barba del Baba. Lui percorre con passo spedito gli ordinati vialetti della grande struttura, guidandoci a visitare i vari luoghi di studio e di lavoro.
...Siamo a Veyula soltanto da poche ore, eppure in ogni incontro respiriamo un clima di familiarità che ci conquista: da tutti riceviamo larghi sorrisi che ci riempiono il cuore...
Quando mai la paternità potrebbe essere vissuta in maniera più intensa di quanto sta assaporando padre Fulgenzio?
Come non bastasse, ci sono altri dodici figli dell’amore che si stanno preparando ad incontrarlo: in quegli stessi momenti infatti ad Arusha, ai piedi del Kilimangiaro, stanno andando a dormire i bambini che l’indomani si metteranno in viaggio per raggiungere il Villaggio della Gioia.

Partiamo in piena notte da Veyula, per un viaggio di ritorno verso la costa che si svolge in maniera completamente diversa rispetto all’andata. Le prime luci dell’alba ci accolgono quando già ormai gran parte del percorso è alle spalle.
Stiamo facendo la strada che dall’entroterra scende lentamente verso la costa. Inevitabilmente la nostra mente va a ritroso nel tempo, fino agli angosciosi giorni nei quali gli schiavi erano costretti a fare lo stesso tragitto in direzione Bagamoyo, luogo maledetto che segnava il loro drammatico futuro.
Nel XVI secolo il Continente americano, da poco scoperto, richiedeva manodopera per le grandi piantagioni e i navigatori portoghesi, che circumnavigavano l’Africa per raggiungere l’India a fini commerciali, fiutarono subito l’affare: i popoli neri costituivano un immenso «serbatoio» di braccia robuste a buon mercato, e il fiorente traffico di schiavi gestito dagli arabi era la prova evidente che la «merce umana» poteva essere molto più redditizia delle altre mercanzie.

Gli schiavisti impiegavano circa due mesi e mezzo per completare questo sacrilego misfatto, nel quale sottoponevano il loro carico umano ad ogni sorta di angheria.
Come sinistra rimembranza ancor’oggi sul ciglio della strada sono talvolta visibili dei boschetti di mango piantati appositamente dai trafficanti negrieri; erano le dispense naturali che servivano per sfamare gli schiavi. Venivano posizionate ogni dodici miglia, distanza normalmente coperta in un giorno di marcia.
Ascoltiamo attoniti padre Fulgenzio, che ci trasferisce una profonda sofferenza al pensiero delle innumerevoli storie di uomini e donne strappati dai propri cari, costretti a lasciare la propria terra con destinazione Nuovo Mondo e obbligati ad affrontare un viaggio oceanico fatale per molti a causa di stenti, malattie e torture.
Per molto tempo restiamo immersi nelle nostre amare riflessioni finché la voce di Andrea rompe il silenzio facendoci notare gli immensi campi assolati dove distese di agave si perdono all’orizzonte. Ci spiega che da questa pianta si ricava una resistentissima fibra naturale, la cui produzione ha un consistente peso nella fragile economia tanzaniana. Guardiamo le coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio, e ci troviamo a sperare che quella risorsa locale continui a reggere la concorrenza delle fibre sintetiche, anche se sinceramente non sappiamo fino a quando le interessate politiche del «Primo Mondo» lo consentiranno.
Il tempo corre veloce ed i successivi chilometri, fino alla casa passionista di Dar, volano in un batter d’occhio. Tanta è l’attesa per l’arrivo dei bambini, che già siamo tutti proiettati verso quell’evento storico previsto per le prime ore del pomeriggio.
Il tempo corre veloce ed i successivi chilometri, fino alla casa passionista di Dar, volano in un batter d’occhio. Tanta è l’attesa per l’arrivo dei bambini, che già siamo tutti proiettati verso quell’evento storico previsto per le prime ore del pomeriggio.
Baba Fulgenzio freme all’inverosimile per poter essere subito al Villaggio. Noi lo seguiamo salendo con lui nel fuoristrada mentre don Leone va ad aspettare i bambini e le suore alla stazione.
"Sarà un pomeriggio da consegnare alla storia" − dice padre Fulgenzio − "e ci tengo proprio che voi di Anima Universale, con telecamera e macchine fotografiche, possiate immortalare ogni momento".
Messosi alla guida, padre Fulgenzio ci «costringe» ad una nuova toccante immersione nel suo cuore.
La sua voce cattura la nostra attenzione, trasmettendoci storie di vita vissuta, aneddoti, lampi di grande umanità.
Ad un certo punto il suo impeto si affievolisce un po’: ormai siamo vicini al cancello del Kijiji cha Furaha e quella sua breve pausa di riflessione ci fa comprendere che con i suoi pensieri lui è già entrato.
Trascorrono veloci alcuni altri minuti e finalmente parcheggiamo all’interno del Villaggio.
Le ore trascorrono lente: passano le tre, poi le quattro del pomeriggio, ma i bambini non arrivano e di loro non si hanno notizie. Fin quando don Leone, in attesa alla stazione, finalmente li vede sopraggiungere e così racconta:
"Attesi, giungono i primi bambini ospiti che, con due suore passioniste, aprono la prima casa-famiglia. Li accogliamo nella caotica stazione dei bus, dopo un viaggio di mille kilometri, stanchi ma sorridenti. Scendono da un bus dove la lista dei passeggeri sembra interminabile, le valigie ammassate sul tetto, in mano quanto basterebbe per un mercato del mercoledì in generi di varia natura".
È già sera e l’ingresso al Villaggio rasenta la semplicità provocante: ciascuno ha per mano un bambino, scrutando nei grandi occhi nascosti nel buio dei volti i sentimenti che emergono.

A parlare è il linguaggio del cuore, che i presenti esprimono in improvvisati canti di giubilo, sorrisi, volti radiosi di felicità.
Noi adulti sembriamo i bambini, tanto è l’entusiasmo, il frastuono e l’allegria mescolata a lacrime di commozione nell’accogliere quei fanciulli.
Un gruppo di volontari e le suore di Santa Gemma si attivano prontamente in cucina per preparare una cena che consenta ai dodici piccoli e alle tre suore passioniste di rifocillarsi.
Nel giro di mezz’ora eccoli seduti ai tavoli dell’ostello, per consumare la loro prima cena al Villaggio.
Suor Isabel e le sue consorelle accudiscono i più piccoli, imboccandoli per farli mangiare, mentre i più grandicelli già si arrangiano, soddisfatti della loro indipendenza. Hanno occhi vivacissimi, dai quali tracima una meravigliata gioia.
Con telecamera e foto cerchiamo di riprendere al meglio ogni attimo, attenti a non disturbare l’intimità di quei momenti irripetibili. È l’inizio di una storia che ci auguriamo ricchissima di consolazione per tanti fanciulli d’Africa che qui potranno riscoprire la speranza...
La cena corre via alla svelta.
La giornata è già stata lunga a sufficienza ed è giunta l’ora di andare a dormire.
La giornata è già stata lunga a sufficienza ed è giunta l’ora di andare a dormire.

Il Baba, da buon papà, li accompagna uno per uno a sistemarsi nella propria brandina, in camere semplici e funzionali; noi, in punta di piedi lo seguiamo, lo filmiamo, «rubiamo» quante più immagini possibili.
Al di là di quanto si sta imprimendo su cassette e pellicole, la registrazione più bella è quella che stiamo facendo dentro di noi: quegli attimi di felicità incidono indelebilmente il nostro animo.
La vivacità, le grida e gli schiamazzi dei bimbi che corrono tra le camere e i corridoi, sono musica celestiale per le orecchie di padre Fulgenzio, che assapora intensamente momenti lungamente immaginati. La sua ispirazione prende ora concretezza dopo una gestazione travagliata, nella quale con il «solo» sostegno della Fede in Dio ha saputo superare ogni sorta di ostacolo. Lui ha ideato, pianificato e lottato, ha sopportato difficoltà enormi, che mai lo hanno fatto vacillare nella determinazione e nella perseveranza. Adesso, quei piccoli bambini africani che si stanno sistemando nelle brande portano nel Villaggio la gioia vissuta. Loro sono i primi, il leggiadro e vivace annuncio dei tanti che qui potranno riconciliarsi con la vita, sostituendo l’abbandono con l’opportunità di un’esistenza dignitosa.


Il mattino di giovedì, nel Villaggio pullulante di svariate attività, i bambini sono ovviamente al centro dell’attenzione di tutti. Noi ramia siamo intenti ad addobbare la Chiesa e l’ostello con interminabili strisce di bandierine colorate, e da lontano scorgiamo il gruppetto dei bimbi che giocano sul cortile di fronte alla casa-famiglia. Ci giunge nitido quel vivace vociare e torniamo un po’ tutti bambini: verrebbe voglia di unirsi ai loro giochi, per stare in così allegra compagnia.
Da parte di tutti i volontari è però d’obbligo la discrezione; è importante lasciare che i fanciulli vivano indisturbati la presa di contatto con la realtà del Villaggio. Fin quando, inaspettatamente, baba Fulgenzio ci viene vicino, sfoggiando il sorriso di chi ben sa di darci una notizia graditissima: i piccoli per un paio di giorni mangeranno insieme a noi. Saranno ospiti all’ostello in attesa che la cucina della casa-famiglia acquisti la sua piena funzionalità.

All’ora di pranzo, la tavolata dell’ostello si riempie con i Don, i volontari, le suore e i bambini. Baba Fulgenzio, al centro della sala, è il ritratto della felicità, colmo di quella serenità che fa capolino soltanto nei momenti della vita in cui si è consapevoli di aver realizzato gli obiettivi per i quali si è lungamente combattuto… e sofferto!


Il pomeriggio ed i giorni seguenti trascorrono nei preparativi: i volontari si sparpagliano in vari gruppetti, occupandosi delle incombenze assegnate da padre Fulgenzio.
Noi ramia siamo stati incaricati di riordinare l’ala della scuola donata da Anima Universale al Villaggio della Gioia;

Sulla targa insieme al nostro logo campeggia ben visibile la scritta «Dio è l’Amore che tutto realizza… e chi ama può l’impossibile». Sono parole scritte dal fondatore di Anima Universale, Swami Roberto, che coincidono con la vita di padre Fulgenzio.

L’inaugurazione, giorno di festa (Testo tratto dal nostro libro "Appunti di vita di Baba Fulgenzio")
Ormai ci siamo, l’alba dell’11 gennaio è sorta, ed impazienti ci alziamo di buon’ora dalle brande; il vociare che arriva dall’esterno è un richiamo irresistibile e non vediamo l’ora di tuffarci nell’atmosfera elettrica del Villaggio già in fermento.
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In primo piano ramia Osvaldo, e sullo sfondo la First lady della Tanzania, sig.ra Mama M'kapa, e l'ambasciatore d'Italia dott.Marcello Griccioli |

Alle dieci inizia la Messa, concelebrata dal Cardinale Pengo e da ben dodici sacerdoti. Nel suo intervento baba Fulgenzio pronuncia le parole da tutti attese, che incorniciano lo storico momento:

La celebrazione corre via veloce; uno tra i momenti più toccanti è quello in cui i dodici bambini, dinanzi all’altare, ricevono la benedizione dei celebranti. Loro guardano timidamente ma vivacemente in tutte le direzioni, frastornati da tanta attenzione che li avvolge: tutti li sentono un po’ come figli propri.

Gli avvenimenti incalzano. Usciamo rapidamente sul sagrato per il taglio del nastro ad opera del Cardinale: ora il Villaggio è ufficialmente aperto.
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La visita ufficiale alla prima-casa famiglia. Da sx a dx si riconoscono: il card. Polycarp Pengo, ramia Osvaldo, Mama M'kapa (First lady della Tanzania) e p.Fulgenzio |

Tutto è danza, espressione ritmata di felicità autentica, che nasce dal cuore.
Concludo oggi il racconto della nostra missione in Tanzania, in occasione dell'inaugurazione del Villaggio della Gioia, condividendo con tutti voi l'emozione di un momento bellissimo:
Durante il pranzo ufficiale con tutte le autorità civili e religiose, Baba Fulgenzio ci ha chiesto di telefonare a Leinì proprio durante il darshan di Swami Roberto, per ringraziare in diretta la grande famiglia di Anima Universale.
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Il momento della telefonata con cui Padre Fulgenzio ringrazia la grande famiglia di Anima Universale |
Riascoltatela insieme a me.
Clicca qui per entrare nel sito di Anima Universale, ed ascoltare la telefonata (vai al secondo video, in fondo alla pagina)