lunedì 7 febbraio 2011

A mani vuote

Alzi la mano chi non conosce il celebre passo evangelico “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”.
Io sospetto che le vostre mani siano rimaste ben ferme al loro posto, perché la parabola matteana è arcinota.
Com'è stra-conosciuto anche il versetto lucano “l'Onnipotente... ha rimandato i ricchi a mani vuote”, che evidentemente tocca anch'esso il tema della ricchezza.
“A mani vuote” è il titolo dell'insegnamento di Swami Roberto di cui vi parlo oggi (tratto dal libro “Ascoltando il Maestro”, Vol.2, pag.145), un discorso la cui lettura sarebbe particolarmente salutare per quanti, nelle svariate chiese cristiane, si limitano alla comprensione letterale dei testi evangelici, traendone superficiali generalizzazioni. Una di esse riguarda appunto le persone ricche per le quali, secondo un diffusissimo luogo comune che trae origine anche dai due passaggi evangelici sopra-citati, la porta del Paradiso è troppo stretta.
Dice Swami Roberto:

“Il denaro, come ogni altro mezzo, non ha in sé una valenza morale: può essere usato sia in bene che in male. È sempre e solo la persona che lo gestisce ad essere morale o immorale. Non sono infatti la ricchezza e il potere che rendono schiavi gli uomini, ma l’attaccamento alla ricchezza e al potere”.

Le esperienze della vita possono portare ciascuno a rendersi direttamente conto di come, a volte, si incontri la taccagneria in un povero legato avidamente al poco che possiede, e non in un ricco che condivide generosamente i suoi averi con il prossimo.
Quindi, la questione non si pone su un piano prettamente materiale ma riguarda invece il personale modo di rapportarsi alle cose del mondo, tra le quali il denaro recita un parte da protagonista.
Aggiunge Swami:

“Non bisogna mai accettare che i mezzi sostituiscano i fini per i quali ha senso vivere, altrimenti l’interiorità si dissiperà nell’esteriorità. Più l’uomo si fa valutare con il metro del denaro, meno è apprezzato con il metro dell’Amore…”

La forma di avarizia più pericolosa, perché meno riconoscibile, è quella che non riguarda necessariamente i soldi, ma silenziosamente “infetta” gli animi fino a farli chiudere in se stessi, per non dover donare nulla di sé al prossimo.
Al riguardo il Maestro aggiunge:

“chi vive solo per sé stesso, ricco o povero che sia, rifiuta di esistere per gli altri, quindi in un certo senso dichiara al prossimo di essere morto”.

In questa sorta di sepolcro molti accumulano un “patrimonio” segreto, coltivato e custodito gelosamente, per il quale non accettano alcuna intrusione.
Si tratta di quel meschino cumulo di vezzi-vizi funzionali all'appagamento dell'io egocentrico, il quale vorrebbe ricondurre al proprio vantaggio personale tutto ciò che esiste, nella pretesa di non essere disturbato da nulla e da nessuno.
Questa è la “ricchezza” che, come dice Swami, “nulla ha a che fare con i conti in banca… e in rapporto alla quale le persone povere sono veramente poche”.
Questa è l'ingombrante zavorra dalla quale è necessario liberarsi per poter entrare nel Regno dei cieli, dove si colloca... “l’inestinguibile ricchezza dello spirito”.