Il giorno seguente padre Fulgenzio decide di accompagnarci a Veyula, sugli altipiani interni a ridosso della Rift Valley, per visitare la casa madre dei passionisti. Alle quattro della notte, anticipando la pur precoce alba africana, siamo in nove a salire in un furgoncino guidato da Andrea Pannocchia, mentre ci precede il «fuoristrada dei Don», con p.Francesco, don Leone, l’attivissima Rosaria e padre Fulgenzio.


È una situazione tutt’altro che simpatica, visto che ci troviamo in pieno entroterra tanzaniano, dove l’acqua non è una risorsa facilmente reperibile. Al mattino avevamo sistemato la scorta idrica nel bagagliaio del fuoristrada che ora ci precede; il problema è che i nostri compagni di viaggio sono parecchio più avanti e non abbiamo modo di avvisarli.
Il telefonino, moderna risposta tecnologica ad ogni necessità di comunicazione, qui è inservibile.
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D’un tratto, sbuca dalla boscaglia un ragazzino che viene rapidamente verso di noi, mulinando vorticosamente l’unico pedale di una sgangherata bicicletta. L’altro suo piede è posizionato sul telaio, pronto ad appoggiarsi sulla ruota posteriore a mo’ di freno.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.
Mentre cerchiamo di ingannare l’attesa, sulla linea dell’orizzonte intravediamo qualcuno che sta venendo verso di noi. Procede con un passo talmente spedito che nel volgere di pochi attimi riusciamo prima a distinguerne a malapena la figura, poi capiamo che è un masai, e subito dopo ce lo troviamo già lì a parlare con fare risoluto insieme ad Andrea. È un uomo avanti negli anni, dalle rughe pronunciate che ne scalfiscono il volto… ma intatta è la forza che cogliamo dalla decisione di gesti e parole, peraltro a noi incomprensibili.
Usciamo finalmente dall’impasse soltanto quando la sagoma di un grosso camion si staglia in lontananza. Il conducente ci regala una piccola tanica d’acqua e così possiamo ripartire, non prima di aver sentitamente ringraziato quel ragazzino che ci saluta con un sorriso. Il viandante masai, invece, sale con noi nel furgone per alcuni chilometri, raggiungendo in anticipo il villaggio nel quale altrimenti sarebbe giunto all’imbrunire.


Andrea ci racconta come questo sia un popolo letteralmente falcidiato da malattie legate proprio all’usanza di bere di tutto, anche acqua sporca. I masai sono infatti ferrei nel rispettare i propri principi, e quindi mai scavano pozzi, né del resto praticano l’agricoltura, perché considerano necessario rispettare la terra evitando di «ferirla» con scavi o coltivazioni. Amano immensamente gli spazi aperti nei quali riescono a percorrere a piedi distanze inimmaginabili, e a queste parole ci ritorna in mente un brano letto alcuni mesi prima. Spiegava che i masai sono animati da un senso della libertà così prepotente da non poter essere tenuti a lungo in prigione, altrimenti vi morirebbero nel giro di poco tempo; per questo i reati da loro commessi sono puniti con ammende, ma non con il carcere. È un bisogno di libertà riconoscibile anche nell’anziano viandante masai che abbiamo appena salutato: ha sicuramente camminato per ore ed ore con l’unica compagnia delle sconfinate distese africane.

Ancora frastornati a causa dell’imprevisto, ci guardiamo sbigottiti di fronte a tanto inspiegabile entusiasmo, ma poi ne comprendiamo la ragione: i bambini che correndo a perdifiato sono arrivati per primi, si accaparrano i pezzi di gomma più grandi e se li sistemano ai piedi a mo’ di suole, fissandole con alcune rozze corde di fibra vegetale. È l’«arte» della sopravvivenza, affinata da giovani che sanno di dover cogliere il massimo da ogni situazione; solo così possono sperare di vincere la quotidiana lotta che qui è necessario condurre per poter continuare a vivere.
(Fine 3^ parte - continua)
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