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mercoledì 20 gennaio 2010

Tre Monaci Ramia al Villaggio della Gioia (Parte 3^)

(Testo tratto dal nostro libro "Il Villaggio della Gioia, appunti di vita di Baba Fulgenzio")

Il giorno seguente padre Fulgenzio decide di accompagnarci a Veyula, sugli altipiani interni a ridosso della Rift Valley, per visitare la casa madre dei passionisti. Alle quattro della notte, anticipando la pur precoce alba africana, siamo in nove a salire in un furgoncino guidato da Andrea Pannocchia, mentre ci precede il «fuoristrada dei Don», con p.Francesco, don Leone, l’attivissima Rosaria e padre Fulgenzio.



Nei racconti avventurosi che si rispettino non può mancare il pathos della scoperta o dell’improvviso spavento che ti fa saltare il cuore in gola. Così sarà anche per noi in quel memorabile viaggio, una quindicina d’ore trascorse tra intoppi imprevisti e scenari maestosi...



Chilometro dopo chilometro saliamo il dolce pendio che dalla costa ci porta verso l’interno, fin quando perdiamo di vista il gippone dei don, che ci ha staccato a causa dei nostri ripetuti rallentamenti, doverosi omaggi alle meraviglie naturali che numerose si dispiegano davanti ai nostri occhi.



In quel mentre, una spia improvvisamente si accende sul cruscotto del furgone, e i fumi di vapore che si alzano dal cofano spezzano l’incanto nel quale eravamo immersi. Appena svanita la sorpresa, la preoccupazione repentinamente si fa spazio a disturbare i nostri pensieri: la poca acqua rimasta nel radiatore è in ebollizione. Siamo costretti a fermarci.
È una situazione tutt’altro che simpatica, visto che ci troviamo in pieno entroterra tanzaniano, dove l’acqua non è una risorsa facilmente reperibile. Al mattino avevamo sistemato la scorta idrica nel bagagliaio del fuoristrada che ora ci precede; il problema è che i nostri compagni di viaggio sono parecchio più avanti e non abbiamo modo di avvisarli.
Il telefonino, moderna risposta tecnologica ad ogni necessità di comunicazione, qui è inservibile.
D’un tratto, sbuca dalla boscaglia un ragazzino che viene rapidamente verso di noi, mulinando vorticosamente l’unico pedale di una sgangherata bicicletta. L’altro suo piede è posizionato sul telaio, pronto ad appoggiarsi sulla ruota posteriore a mo’ di freno.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.


I minuti trascorrono lenti, ed un po’ alla volta ci rendiamo conto di un problema che si prospetta di tutt’altro che facile soluzione: la strada è una striscia isolata in mezzo al silenzio.

Mentre cerchiamo di ingannare l’attesa, sulla linea dell’orizzonte intravediamo qualcuno che sta venendo verso di noi. Procede con un passo talmente spedito che nel volgere di pochi attimi riusciamo prima a distinguerne a malapena la figura, poi capiamo che è un masai, e subito dopo ce lo troviamo già lì a parlare con fare risoluto insieme ad Andrea. È un uomo avanti negli anni, dalle rughe pronunciate che ne scalfiscono il volto… ma intatta è la forza che cogliamo dalla decisione di gesti e parole, peraltro a noi incomprensibili.
Intanto, torna anche il bambino con la bicicletta sulla quale, non si sa come, riesce a far stare in equilibrio un recipiente che non esita a porci, soddisfatto e sorridente. Solo che… una smorfia di disappunto si dipinge sul volto di Andrea, e noi diventiamo partecipi del suo stato d’animo quando ci avviciniamo fino a vedere il contenuto: c’è una fanghiglia melmosa, piena di residui vegetali che, se messa nel radiatore, di certo ne decreterebbe istantaneamente una morte senza appello. Quando ancora Andrea sta spiegando al ragazzino l’impossibilità di utilizzare quel liquido fangoso, interviene il masai che ne ingurgita una abbondante sorsata. Con aria soddisfatta sostiene che poiché lo beve lui, lo può «bere» anche la macchina.
Usciamo finalmente dall’impasse soltanto quando la sagoma di un grosso camion si staglia in lontananza. Il conducente ci regala una piccola tanica d’acqua e così possiamo ripartire, non prima di aver sentitamente ringraziato quel ragazzino che ci saluta con un sorriso. Il viandante masai, invece, sale con noi nel furgone per alcuni chilometri, raggiungendo in anticipo il villaggio nel quale altrimenti sarebbe giunto all’imbrunire.

Come stride il contrasto tra la calma ed i tempi lunghi del mondo africano, e le ansie frenetiche della società consumistica. Abituati alla fretta a tutti i costi, era bastato un piccolo contrattempo a metterci in crisi. In quegli interminabili quarti d’ora nei quali ci eravamo ritrovati appiedati, senza immediate soluzioni a portata di mano, eravamo stati costretti ad adeguarci ad un presente che ci coglieva impreparati, perché serbava in sé l’austero sapore di un passato ormai lontano dalle nostre abituali comodità. Avevamo sperimentato un «assaggio» di realtà africana; dal cuore ci scaturiva un senso di amarezza misto a rispetto… quel rispetto che purtroppo manca nei tanti interessati contatti tra la società occidentale e quella africana.

Risaliti nel furgone Andrea ci parla dei masai, il popolo leggendario di pastori che ancora vivono nelle steppe tra Kenya e Tanzania. Molti di loro non accetterebbero mai un passaggio: pur se in parte toccati anch’essi dal progresso, sono ancora uomini di altri tempi, non più temuti come invincibili guerrieri ma a tutt’oggi rispettati ed ammirati per l’innata fierezza.
Andrea ci racconta come questo sia un popolo letteralmente falcidiato da malattie legate proprio all’usanza di bere di tutto, anche acqua sporca. I masai sono infatti ferrei nel rispettare i propri principi, e quindi mai scavano pozzi, né del resto praticano l’agricoltura, perché considerano necessario rispettare la terra evitando di «ferirla» con scavi o coltivazioni. Amano immensamente gli spazi aperti nei quali riescono a percorrere a piedi distanze inimmaginabili, e a queste parole ci ritorna in mente un brano letto alcuni mesi prima. Spiegava che i masai sono animati da un senso della libertà così prepotente da non poter essere tenuti a lungo in prigione, altrimenti vi morirebbero nel giro di poco tempo; per questo i reati da loro commessi sono puniti con ammende, ma non con il carcere. È un bisogno di libertà riconoscibile anche nell’anziano viandante masai che abbiamo appena salutato: ha sicuramente camminato per ore ed ore con l’unica compagnia delle sconfinate distese africane.

Comunque, le vicissitudini non sono ancora finite. Raggiunta la jeep dei don che ci stavano aspettando, non facciamo a tempo a riprendere il viaggio che un botto terribile ci fa sobbalzare il cuore. Proprio in prossimità di un piccolo villaggio, formato da qualche decina di capanne di fango, un pneumatico posteriore del nostro furgone si disintegra in mille frammenti con un fragore che assomiglia ad un colpo di cannone. Quella che per noi è una disdetta, è invece motivo di festa grande per una frotta di ragazzi che si precipita verso la nostra comitiva, ridendo e gridando di gioia.
Ancora frastornati a causa dell’imprevisto, ci guardiamo sbigottiti di fronte a tanto inspiegabile entusiasmo, ma poi ne comprendiamo la ragione: i bambini che correndo a perdifiato sono arrivati per primi, si accaparrano i pezzi di gomma più grandi e se li sistemano ai piedi a mo’ di suole, fissandole con alcune rozze corde di fibra vegetale. È l’«arte» della sopravvivenza, affinata da giovani che sanno di dover cogliere il massimo da ogni situazione; solo così possono sperare di vincere la quotidiana lotta che qui è necessario condurre per poter continuare a vivere.

(Fine 3^ parte - continua)

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