domenica 3 gennaio 2010

Tre Monaci Ramia al Villaggio della Gioia (2^ parte)

(testo tratto dal nostro libro "Il Villaggio della Gioia, appunti di vita del Fondatore Baba Fulgenzio")

Una ventina di minuti dopo essere partiti da Mikoceni, lasciamo la New Bagamoyo Road e ci immettiamo in una strada polverosa e piena di buche, che come un lunghissimo serpente aggira maestosi Baobab addentrandosi in un’area aperta; padre Fulgenzio ci spiega che stiamo attraversando la zona che costituirà la futura meta abitativa di centinaia di migliaia di persone. Qui è infatti programmata l’espansione urbana di Dar.


D’un tratto giungiamo in prossimità del Villaggio. Scorgiamo davanti a noi un cancello giallo che permette l’accesso al complesso di Santa Maria Nascente, costituito da un ospedale e una scuola materna; poi, finalmente, vediamo un cancello blu fiancheggiato da un muretto sul quale campeggia una scritta multicolore di benvenuto, in tre lingue, disegnata tra alcune nuvolette: «Villaggio della Gioia – Kijiji cha Furaha – Village of Joy». Siamo arrivati.


Mettendo piede a terra proviamo emozioni forti, per un Villaggio che intorno a noi si apre in tutte le direzioni, con tante opere già concluse, o ben avviate, ed in generale una sensazione di grandezza che supera le nostre aspettative.
Il tempo di capacitarci che siamo veramente lì, nel cuore dell’opera ideata da padre Fulgenzio, e subito ci avviciniamo alla chiesa: l’inizio della Messa domenicale incombe.


Di lì a poco, note di festa, per una liturgia improntata alla gioiosa semplicità. Due lunghe file di bambini affiancati danzano all’unisono, e percorrono il corridoio centrale. I più piccoli sono davanti a scandire il ritmo, fendendo l’aria con sublime armonia, disegnando una danza che inneggia alla vita.
L’impatto con quel concentrato di allegria e compostezza è di quelli che toglie il fiato.


Intorno a noi osserviamo volti di uomini e donne colmi di gratitudine, letizia e devozione. Un’atmosfera unica ci avvolge, facendoci sentire veramente nella casa della gioia; ancora di più capiamo come questa parola non poteva certo mancare nel nome che padre Fulgenzio ha scelto per il Villaggio.
La semplice limpidezza d’animo che traspare dai presenti ci sembra proprio l’inno di lode più bello che si possa levare al Cielo, e poi il coro: i canti sono momenti di grande partecipazione, di coinvolgimento, di preghiera che si esprime in melodie tambureggianti, in note che incidono il cuore.


Dopo la messa, la giornata è un susseguirsi di immagini, esperienze, chiacchierate; don Aurelio e don Leone ci fanno da anfitrioni e assieme a padre Fulgenzio ci guidano ad una prima sommaria perlustrazione del Villaggio, conducendoci a visitare l’ostello, le case-famiglia ed i magazzini.
Intanto il nostro gruppo, comprendente anche la folta schiera di parrocchiani di alcuni paesi della bergamasca, è preso di mira dal piccolo Baraka, bimbo vivacissimo sempre disposto al sorriso; è proprio irresistibile quel suo viso simpatico, nel quale risaltano due occhioni che paiono due perle. Per lui ogni attimo è buono per inscenare siparietti esilaranti che trascinano all’allegria tutti i presenti.


In quelle prime ore africane abbiamo potuto cogliere la bellissima musicalità della parlata Swahili, che oltre a caratterizzare gli splendidi canti dà un tocco musicale anche alle frasi del linguaggio comune. Padre Fulgenzio ci spiega che è la lingua dell’intera Africa orientale, dunque una delle più parlate al mondo, frutto dell’unione tra le lingue africane arcaiche e l’arabo.
"Nella lingua Swahili non esiste il verbo avere – ci racconta padre Fulgenzio – esiste solo il verbo essere: essere per, essere con, essere insieme a, essere in compagnia di, essere amato da, servire da, condividere per, condividere con.
Per un africano il senso dell’esistenza è il condividere con il gruppo; tutto il resto viene di conseguenza"
.
Ma come? Ci guardiamo stupiti e ci chiediamo come un africano possa pensare, parlare e vivere, senza neanche concepire il concetto di possesso; eppure padre Fulgenzio continua spiegandoci che si tratta di una cosa naturale per chi è abituato, per poter sopravvivere, a far leva sul gruppo, sulla solidarietà.
È inevitabile che di fronte a questo modo di pensare la nostra mentalità venga colta impreparata; agli occhi della società imperniata sul capitalismo non possono che apparire come «extraterrestri» quelle persone che riescono a vivere con una semplicità imbarazzante, senza porsi il problema di possedere.


Nel pomeriggio c’è tempo anche per una veloce visita a Dar; attraversiamo quartieri gremiti di gente, sfiorando rudimentali banchi di frutta, schivando mezzi pubblici stracarichi di passeggeri, fiancheggiando pericolanti baracche e piccoli mercatini. Poi, d’improvviso, ci troviamo in una zona totalmente diversa, con tanto di banche e palazzi degni di una città europea.
Sono le contraddizioni dell’Africa.
Le parole di padre Fulgenzio ci raccontano di una terra lacerata anche dal contrasto tra tradizione e modernità.
Tornando a Mikoceni per la cena, come in un film riviviamo le sorprendenti emozioni della giornata; chissà quante altre ne verranno nei prossimi giorni!

(Fine 2^ parte - continua)

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