Arrivo a Veyula, la Casa Madre dell'Ordine passionista in Africa.
Dopo un rifocillante spuntino consumato al centro di uno sconfinato altopiano, pian piano ci avviciniamo alla sospirata meta.
Che meraviglia! Dalla strada, che dolcemente fende il fianco di un’altura sopraelevata sulla pianura circostante, ci alziamo tanto da poter scorgere un’inimmaginabile distesa di baobab, che si perde a vista d’occhio: piante gigantesche ci appaiono come minuscoli funghi posizionati in simmetrica armonia.
L’aria è così tersa che vediamo con nitidezza anche quelli da noi lontanissimi, fin quando si confondono con la linea dell’orizzonte; sembrano l’ordinata peluria di un grande, abnorme volto: è lo stupendo viso dell’Africa che continua a sorprenderci con le sue incantevoli bellezze.
L’aria è così tersa che vediamo con nitidezza anche quelli da noi lontanissimi, fin quando si confondono con la linea dell’orizzonte; sembrano l’ordinata peluria di un grande, abnorme volto: è lo stupendo viso dell’Africa che continua a sorprenderci con le sue incantevoli bellezze.
Abbiamo la gioia di soggiornare nel centro missionario di Veyula per due giorni molto intensi, nei quali padre Fulgenzio ci porta a visitare la St.Gabriel Technical School e gli altri edifici della missione, che con i suoi servizi sociali funge da punto di riferimento per la popolazione dell’intera area circostante.
Camminando al suo fianco, siamo investiti dall’ondata di entusiasmo che, come una spontanea «ola», si mette in moto alla vista della bianca barba del Baba. Lui percorre con passo spedito gli ordinati vialetti della grande struttura, guidandoci a visitare i vari luoghi di studio e di lavoro.
...Siamo a Veyula soltanto da poche ore, eppure in ogni incontro respiriamo un clima di familiarità che ci conquista: da tutti riceviamo larghi sorrisi che ci riempiono il cuore...A più riprese padre Fulgenzio incontra gruppi di giovani che corrono ad abbracciarlo e lui, immerso in maniera quasi estatica in questa dimensione di affetto, ha una parola e un’attenzione per tutti; di ognuno conosce dettagliatamente la vita, i problemi, le aspirazioni.
Quando mai la paternità potrebbe essere vissuta in maniera più intensa di quanto sta assaporando padre Fulgenzio?
Come non bastasse, ci sono altri dodici figli dell’amore che si stanno preparando ad incontrarlo: in quegli stessi momenti infatti ad Arusha, ai piedi del Kilimangiaro, stanno andando a dormire i bambini che l’indomani si metteranno in viaggio per raggiungere il Villaggio della Gioia.
Inizia il 7 gennaio, giorno tanto atteso che vedrà il Villaggio della Gioia accogliere i suoi primi figli.
Partiamo in piena notte da Veyula, per un viaggio di ritorno verso la costa che si svolge in maniera completamente diversa rispetto all’andata. Le prime luci dell’alba ci accolgono quando già ormai gran parte del percorso è alle spalle.
Stiamo facendo la strada che dall’entroterra scende lentamente verso la costa. Inevitabilmente la nostra mente va a ritroso nel tempo, fino agli angosciosi giorni nei quali gli schiavi erano costretti a fare lo stesso tragitto in direzione Bagamoyo, luogo maledetto che segnava il loro drammatico futuro.
Il volto di padre Fulgenzio si rattrista quando comincia a parlarci dell’orrore della schiavitù, che in questa regione ha distrutto la vita di milioni di africani. Tutto ebbe inizio nell’VIII secolo d.C. con una migrazione di mercanti ed artigiani arabi verso le coste del Tanganika e di Zanzibar. Cominciò così l’epoca della tratta degli schiavi, un commercio che consentiva notevoli profitti e per il quale l’entroterra africano forniva «materiale umano» in abbondanza. Dar es Salaam divenne la roccaforte che gli arabi insediarono nella costa del Tanganika, punto di partenza dei traffici di mercanzia umana verso l’Arabia ed il Medio Oriente. Dopo che per alcuni secoli questo squallido commercio era rimasto circoscritto tra Africa e mondo arabo, gli europei irruppero sulla scena: l’impatto fu tremendo.
Nel XVI secolo il Continente americano, da poco scoperto, richiedeva manodopera per le grandi piantagioni e i navigatori portoghesi, che circumnavigavano l’Africa per raggiungere l’India a fini commerciali, fiutarono subito l’affare: i popoli neri costituivano un immenso «serbatoio» di braccia robuste a buon mercato, e il fiorente traffico di schiavi gestito dagli arabi era la prova evidente che la «merce umana» poteva essere molto più redditizia delle altre mercanzie.
Sull’esempio dei portoghesi, in breve altri paesi europei fiutarono il macabro affare, e insediarono in tutta l’Africa occidentale dei punti di imbarco battenti bandiera inglese, danese, olandese, spagnola e francese, in una spirale perversa che subito crebbe a dismisura, istituendo una infame deportazione di massa verso il Nuovo Mondo. Erano interminabili le schiere di africani incatenati, convogliati in vere e proprie processioni del dolore, che si snodavano dal lago Tanganika fino alla costa: centinaia di chilometri di suolo africano sui quali si inscenava l’orrendo crimine della soppressione della dignità umana.
Gli schiavisti impiegavano circa due mesi e mezzo per completare questo sacrilego misfatto, nel quale sottoponevano il loro carico umano ad ogni sorta di angheria.
Come sinistra rimembranza ancor’oggi sul ciglio della strada sono talvolta visibili dei boschetti di mango piantati appositamente dai trafficanti negrieri; erano le dispense naturali che servivano per sfamare gli schiavi. Venivano posizionate ogni dodici miglia, distanza normalmente coperta in un giorno di marcia.
Ascoltiamo attoniti padre Fulgenzio, che ci trasferisce una profonda sofferenza al pensiero delle innumerevoli storie di uomini e donne strappati dai propri cari, costretti a lasciare la propria terra con destinazione Nuovo Mondo e obbligati ad affrontare un viaggio oceanico fatale per molti a causa di stenti, malattie e torture.
Per molto tempo restiamo immersi nelle nostre amare riflessioni finché la voce di Andrea rompe il silenzio facendoci notare gli immensi campi assolati dove distese di agave si perdono all’orizzonte. Ci spiega che da questa pianta si ricava una resistentissima fibra naturale, la cui produzione ha un consistente peso nella fragile economia tanzaniana. Guardiamo le coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio, e ci troviamo a sperare che quella risorsa locale continui a reggere la concorrenza delle fibre sintetiche, anche se sinceramente non sappiamo fino a quando le interessate politiche del «Primo Mondo» lo consentiranno.
Il tempo corre veloce ed i successivi chilometri, fino alla casa passionista di Dar, volano in un batter d’occhio. Tanta è l’attesa per l’arrivo dei bambini, che già siamo tutti proiettati verso quell’evento storico previsto per le prime ore del pomeriggio.