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mercoledì 14 ottobre 2009

Il mio incontro con Swami Roberto (parte 5a)

Fiori(Una parentesi mai chiusa nel mio cuore)
Era l’autunno del 1996, e da pochi giorni mio padre Vasco era tornato a casa. Il tumore al cervello non gli avrebbe lasciato scampo, al punto che i medici dell’ospedale avevano acconsentito alla richiesta di noi familiari di portarlo a spegnersi tra le mura in cui era nato.
Ormai non riconosceva praticamente nessuno. Lo sguardo spento, l’espressione assente… dalla sua bocca non uscivano più parole di senso compiuto, ma solo suoni incomprensibili, e sempre più flebili.
SwamiRoberto97Una sera nella quale ero rientrato presto dal lavoro per aiutare mia mamma ad assisterlo, mi avvicinai al suo letto prendendo tra le mie mani una foto di Roberto, e rivolsi alcune parole a mio padre parlando come si può parlare a qualcuno che ad occhi semi-aperti staziona stabilmente in un mondo tutto suo.
“Stai sereno, lo sai che Roberto ti aiuta”.
Vidi un inatteso lampo balenare nei suoi occhi, improvvisamente ravvivati, al punto che restai alcuni lunghi secondi in silenzio.
Poi aggiunsi: “Hai capito chi è?”
“Roberto!”, mi rispose risoluto.
Per alcuni lunghi secondi il fiato mi mancò… come risucchiato dalla sorpresa che avevo provato nel sentirgli scandire con chiarezza quel nome.
“Roberto!” fu l’ultima parola che lo sentii pronunciare con consapevolezza, prima che ricadesse in quel suo stato di impenetrabile torpore che lo avvolse fino a quando, di lì a poco, ci avrebbe lasciato.
Le ultime settimane di vita di mio padre erano state ben diverse rispetto a quello che ci si poteva aspettare; il suo caso era uno di quelli che normalmente prevedono sofferenze lancinanti, ma lui non aveva mai lamentato dolori particolari, e la sua tranquillità aveva favorito la serenità di noi familiari che lo accudivamo.
Tutti ci eravamo resi conto che la malattia aveva avuto un decorso totalmente diverso da quello ipotizzato dai medici, e non era certo la prima volta che ciò accadeva, perché già in precedenza c’erano stati sviluppi inattesi dopo che i miei genitori avevano chiamato in causa Roberto.
I problemi di salute di mio papà erano cominciati tanti anni prima, quando improvvisamente aveva accusato dei problemi alla vescica, che i responsi medici avevano indicato essere di natura tumorale. In famiglia ci eravamo tutti molto preoccupati, ma lui e mia madre avevano reagito con coraggio e fiducia chiedendo subito aiuto a quel giovane mistico torinese di cui tanto parlavano. Io non mi ero unito a quel loro slancio, ma avevo constatato che dopo poco tempo le condizioni di salute di mio padre erano considerevolmente migliorate, tanto da consentirgli di vivere normalmente la sua vita.
Successivamente, Vasco aveva dovuto subire l’attacco di una nuova grave malattia, e fu questo il momento nel quale io stesso mi trovai a toccare personalmente con mano ciò che non riuscivo a spiegare. Mio padre aveva infatti cominciato ad accusare una tosse persistente, con una febbre che non se ne voleva andare, oltre ad un generale deperimento che lasciava presagire il peggio. I primi riscontri medici individuarono la presenza di un tumore non più alla vescica, ma ai polmoni, e di punto in bianco ci trovammo tutti ad attendere con grande apprensione i successivi accertamenti, per capire la reale gravità della malattia.
Io vissi quei momenti con grande difficoltà, perché d’un tratto avvertii il peso opprimente delle tante cose che non ero mai riuscito a dire a mio padre, per le quali improvvisamente rischiavo di non avere più tempo. La sua morte avrebbe irrimediabilmente lacerato una parte di me, lasciandomi in preda ai rimpianti.
Intanto, nel dolore di quella situazione era successo che mia madre aveva ancora una volta chiesto aiuto a Roberto, e subito l’avevo vista sollevata a fronte di quello che le era stato detto: “Il medico vi dirà che non ci sono più speranze, che la massa tumorale ha intaccato entrambi i polmoni e non è operabile, che a Vasco restano non più di due o tre mesi di vita… ma voi non rassegnatevi! Unitevi alle mie preghiere, e vedrete che si riprenderà e potrà tornare a lavorare nei suoi campi”.
Inizialmente io avevo accolto queste parole con diffidenza, anche se mi sforzavo di non dare a vedere le mie perplessità.
Quando però andai dal medico per conoscere il responso degli esami, successe un fatto che proprio non mi aspettavo. Mi sentii dire, alla virgola, le esatte parole che Roberto aveva preannunciato a mia madre. Mi trovai in una situazione paradossale: più il medico usava le identiche implacabili espressioni che non lasciavano scampo: “tumore ad entrambi i polmoni… inoperabile… potrà vivere due o al massimo tre mesi”… più cominciai a percepire quella forza che evidentemente già sosteneva mia madre, perché a dispetto della conferma di una situazione assolutamente compromessa, io sapevo anche che le ultime parole di Roberto erano una porta spalancata alla speranza: “tornerà a lavorare nei suoi campi”.
Di fronte a me, vidi chiaramente lo stupore del medico che non si spiegava la reazione di progressivo rasserenamento che vedeva dipingersi nel mio volto. Non capiva come potessi essere confortato da quell’inequivocabile sentenza di morte che mi stava comunicando.
Ciò che successe nei giorni immediatamente successivi fu ancora più inspiegabile: mio padre mise sul suo corpo le maglie benedette da Roberto, e cominciò repentinamente a migliorare. Di punto in bianco scomparvero sia la snervante tosse che lo aveva accompagnato per mesi, sia la febbre. Lo vedemmo riacquistare l’abituale e salutare colorito che gli conoscevamo.
Il cambiamento avvenne in modo talmente rapido e palese che in famiglia non avremmo neanche voluto che andasse a fare le chemio in ospedale; a quel punto apparivano inutili, ma Roberto insistette perché fossero seguite scrupolosamente le indicazioni dei medici, e così facemmo. Neanche a dirsi, le terapie non comportarono alcun effetto collaterale, e pochi mesi dopo mio padre tornò a lavorare nei suoi campi e trascorse uno dei periodi più belli della sua vita. Anche il mio rapporto con lui divenne più intenso, perché il dramma sventato mi aveva scosso al punto che riuscii ad aprirmi nei suoi confronti come mai avevo fatto nei trent’anni precedenti. Riuscii finalmente a dirgli ciò che avevo nel cuore.
Un anno… sì... un anno che noi abbiamo considerato un anno di vita donato dal Cielo a mio padre. Lo ripeto: il migliore, il più intenso che lui ha vissuto.
Poi, purtroppo, giunse il terzo tumore, questa volta al cervello.
Lui, in modo per me soprannaturale, praticamente neanche si accorse di quello che stava succedendo. Scivolò in poco tempo in uno stato di completa assenza, ed in quel mentre io mi scoprii profondamente cambiato. Insieme ai miei familiari, potei affrontare la perdita di mio padre con un senso di serena e profonda gratitudine… perché non aveva sofferto, e perché gli era stato concesso di vivere ben più a lungo di quanto avrebbe dovuto; non solo… aveva vissuto questo arco di tempo regalatogli dal cielo, con una una pace interiore che prima non gli era mai appartenuta.
Lui per primo, e tutti noi in famiglia, sapevamo che questa grazia straordinaria era dovuta ad un protagonista discreto e costantemente presente, che abitava a Torino.
“Roberto”… questo nome pronunciato da mio padre aveva accompagnato l’ultimo lampo di luce che avevo visto nel suo sguardo… e da un po’ di tempo quel nome era diventato molto importante anche per me.
(Il mio incontro con Swami - fine 5ª parte. Continua…)


Vasco_Roberto
Mio papà Vasco, con Swami Roberto
Questa foto mi parla molto.
E' stata scattata quando ancora io non conoscevo Swami Roberto,
ma mio papà già mi stava indicando la strada da seguire.

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